All’Olympiastadion in fuga
dalle miserie del basket
la storia ha un’altra dimensione

Ebbene sì, l’abbiamo fatto. Con il nostro blog abbiamo abbandonato il mondo del basket per un paio di giorni. L’abbiamo lasciato alle sue miserie dell’ultimo periodo. Ci siamo rivolti all’originale, il calcio. Se c’è da vivere e parlare di uno sport drogato, malato il mondo del pallone professionistico è sempre meglio della sua copia. Dalle semifinali play-off di serie A2 in poi in modo particolare la pallacanestro, almeno a noi, ha ammorbato l’aria che respiravamo.

Prima è entrata nel mirino dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive con restrizioni, bipartisan, ai tifosi che avessero voluto andare in trasferta sull’asse CantùUdine nelle prime quattro gare della serie e non c’è stato bisogno del ritorno a Desio per la bella. Tutto ciò dopo che la cosiddetta operazione di pulizia in curva al Carnera, con l’epurazione del Settore D dalla prima giornata di fase a orologio, ha procurato un Daspo nell’immediatezza per fatti accaduti proprio in quel settore. Poi l’annata ha fatto registrare tre settimane d’inibizione al presidente dell’Apu, Alessandro Pedone, dopo l’eliminazione in semifinale, nella riedizione di un classico sbroccare di fine stagione stavolta contro gli arbitri.

In gara4 di finale play-off Argento, nella serie Oro la Pallacanestro Trieste 2004 ha luccicato di luce propria senza ombre, la prevista premiazione sul campo di Trapani neopromossa in A mancata al palaDozza per motivi di ordine pubblico ha aperto una querelle. Ancora si trascina fra il presidente dei siciliani Valerio Antonini in odore di Daspo da parte della questura di Bologna, la cui sola presenza alla decisiva gara4 dopo avere disertato quella 3 è bastata a destabilizzare l’ambiente, e la Lega nazionale pallacanestro. Anche se il presidente della Federazione italiana pallacanestro, Giovanni Petrucci, dopo un recente incontro con Lnp prevede un punto di equilibrio fra le parti in causa.

A ruota, lo stesso Petrucci è stato costretto a rivolgere un appello al fair play a tutti gli attori protagonisti dopo gara3 di finale scudetto a Milano fra l’Olimpia e la Virtus Bologna, nel cui finale l’arbitro Carmelo Paternicò si è assunto la decisiva responsabilità di assegnare ai meneghini l’ultima rimessa dopo l’istant replay, data in prima battuta ai virtussini.

Passando dal basket giocato a quello parlato, la Real Sebastiani Rieti a fronte di speculazioni di mercato nate dopo che ha reso note le condizioni del patron Roberto Pietropaoli si è vista costretta a emettere il comunicato <Giù le mani dalla Sebastiani!> che non tutti hanno ripreso, men chi meno chi aveva alimentato le voci limitandosi a non parlarne più. Infine, la minaccia di querela di Antonini al giornalista Antonio Simeoli per quanto affermato sul suo conto e quello di Trapani in una trasmissione su TeleFriuli di bilancio consuntivo e preventivo dell’A2 Apu, ospite principale in studio Pedone.

Per noi la misura era colma, avevamo bisogno di ferie e l’occasione ce l’ha offerta una gita lampo a Berlino, assieme ad altri tre amici e compagni di viaggio. Siamo tornati al calcio, che seguiamo con sempre meno trasporto dal 1964 ultimo anno in B dell’Udinese ancora con lo svedese Arne SelmossonRaggio di Luna” in squadra mentre al basket ci siamo avvicinati nel 1968 anno della prima promozione di Udine in A grazie alla Snaidero, non per cieca fede azzurra. Anzi, temevamo che per l’Italia nell’ottavo di finale contro la Svizzera, recidiva perché complice Jorginho dal dischetto ci ha già fatto fuori dal Mondiale scorso nelle qualificazioni, sarebbe andata a finire com’è andata nell’Europeo 2024 in corso.

Durante la gara, vinta 2-0 dai rossocrociati, essendo arrivati dal Friuli ragionavamo sull’insolito destino di due ex allenatori dell’Udinese non malvagi, anzi uno fresco di suo primo scudetto tricolore nella Napoli città natale di mio padre, che rischiano di passare alla storia azzurra più nera. Giampiero Ventura ha già l’etichetta cucita addosso del ct che, sessant’anni dopo la prima fallita qualificazione al Mondiale 1958, non vi ha riportato l’Italia nel 2018. Luciano Spalletti, dopo l’eliminazione di sabato scorso, è il selezionatore che ha abdicato al titolo Europeo 2020, il secondo dopo quello 1968, conquistato dagli azzurri di Roberto Mancini e ricordiamo pure la buon’anima di Gianluca Vialli. Spalletti è giovane del mestiere di commissario tecnico. E’ arrivato in corsa quando, a qualificazioni iridate fallite, il Mancio è passato nel 2023 in panchina all’Arabia Saudita. Avrà quindi la chance di giocarsi la carta di qualificarsi al Mondiale 2026 e salvarsi in corner, riuscendo là dove neanche Mancini è arrivato nel 2022 dopo il fulmine a ciel sereno dell’Europeo vinto. O, meglio, squarcio di sole in un cielo azzurro pumbleo. Spalletti può salvarsi solo così dal vedersi appiccicata la stessa maschera che Ventura agita ridanciano nell’immagine di copertina, efficace sintesi di uno scambio di destini e ruoli per ora a mezz’aria.

Questa è la prosa d’Italia-Svizzera a Berlino. La poesia è stata di godersela, sì godersela nonostante risultato e spettacolo mancati da parte degli azzurri, all’Olympiastadion occasione unica, e per me forse ormai irripetibile, che non mi sono voluto fare sfuggire. L’Olympiastadion è lo stadio voluto dalla propaganda nazista per ospitare i Giochi olimpici del 1936 che, ironia della sorte, misero il culto della razza ariana di fronte alle quattro medaglie d’oro vinte dall’afroamericano Jesse Owens nei 100 metri piani, 200, staffetta 4×100 e salto in lungo battendo, fra l’altro, in questa specialità l’atleta tedesco Luz Long. Un inno alla diversità che batte la propaganda, tema quanto mai attuale e dibattuto anche oggi.

L’emozione ci ha colto più forte quando siamo giunti all’Olympischer Platz dal capolinea della metro U, incolonnati fra i tifosi italiani anche residenti in Germania di seconda o terza generazione, con cui si mescolavano pure altre etnie. Ciò dopo una giornata trascorsa visitando i punti salienti di una capitale che, girata già con mio figlio nel 2011, porta ancora le vestigia del tristemente noto muro di Berlino caduto nel 1989, ma che ormai da 35 anni riunisce Germania dell’Est e dell’Ovest anche se non tutti i muri del mondo sono ancora caduti. Fra le due torri dell’orologio, all’ombra delle quali si sono svolte le operazioni di prefiltraggio e di accesso ai tornelli solo con ticket elettronico, si stagliava l’impianto in tutta la sua possanza non scalfita dal tempo nè modificata dalla ristrutturazione per il Mondiale di calcio del 2006, che ha aggiunto solo una copertura a ferro di cavallo: 74-75 mila spettatori ora, 110 mila nel 1936. Una regia occulta, quella della Uefa che assegna i posti nel settore prescelto, non poteva riservarci ingresso migliore. Il nostro R3, fila 19, posti dal 7 al 10, in curva dietro una delle due porte, era giusto di fronte a quello del tripode olimpico e alla torre con trifora opposta a quelle dell’orologio. E’ stato come entrare nell’Olimpo con il sole alto che picchiava sull’Olympiastadion proprio di fronte a noi, come nei classici posti al sol della corrida anche se poi si è assistito alla mattanza azzurra, colori che comunque in quello stadio e nel suo predecessore hanno vinto tre Mondiali nel 1930, 1934 e 2006 e sia di buon auspicio.

In quello scenario e con tutta la storia tornata alla memoria, hanno assunto la loro giusta dimensione fatti, misfatti e personaggi del mondo del basket che fanno fatica a entrare bene anche solo nella cronaca. Con il solo rammarico che la coincidenza del viaggio a Berlino, improvviso e imprevisto, mi ha fatto saltare la festa per gli 80 anni del professor Flavio Pressacco nella palestra Ezio Cernich di Laipacco. Festa, impreziosita anche dal coro dello Zanon, di cui ho avuto ottime referenze da un amico dirigente del basket appena finita, mentre eravamo in viaggio verso Salisburgo. La sera dopo la partita, mentre eravamo a cena a Berlino, un amico giornalista pure reduce dalla festa mi esprimeva tutta la sua vicinanza. Gli ho risposto che l’emozione di vivere l’Olympiastadion aveva fatto premio su tutto. Ci ha creduto e anche il professor Pressacco ha capito sùbito il “tradimento” quando ho declinato l’invito. Auguri, grazie e ad maiora, Prof!

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